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Ce la faremo

10 March 2020

Si riportano di seguito due stralci degli editoriali di Aldo Cazzullo ed Ernesto Galli della Loggia, pubblicati sul Corriere della Sera del 10 e del 7 marzo 2020.

Perchè? perchè dobbiamo essere ogogliosi del nostro Paese e di noi stessi.

 

"Non è vero che gli italiani hanno sempre e solo badato ad arrangiarsi, senza lungimiranza né resistenza, incapaci di gettare uno sguardo oltre alle difficoltà del presente. Ognuno dei grandi momenti della storia nazionale può essere di ispirazione. È il momento di rileggere la lettera che Vittorio Emanuele II, il re che ha fatto l’Italia, oggi quasi del tutto assente dalla memoria collettiva, scrisse al segretario alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza: «Io parto domattina per la campagna con l’esercito. Procurerò di sbarrare la via di Torino, se non ci riesco e il nemico avanza, ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo. Vi sono al Museo delle armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre. Questi sono i trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno: valori, gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo; il resto non conta». Cosa intendeva dire il re? Più o meno questo: noi italiani non ci arrenderemo mai; anche se dovessimo essere ancora sconfitti dal più potente esercito d’Europa, continueremo a combattere per conquistarci una patria. Aveva scelto di essere italiano Nazario Sauro, nato suddito austriaco a Capodistria, disertore per amore della sua vera nazione, catturato e condannato a morte. La Grande Guerra è piena di testimonianze da riscoprire: i fanti scrivevano molto. Ma restano insuperate le parole che Sauro lasciò al primogenito prima di affrontare il plotone d’esecuzione: «Caro Nino, tu forse comprendi, o altrimenti comprenderai fra qualche anno, quale era il mio dovere d’italiano. Diedi a te, a Libero, ad Anita, a Italo, ad Albania nomi di libertà, ma non solo sulla carta; questi nomi avevano bisogno del suggello, e il mio giuramento l’ho mantenuto. Io muoio col solo dispiacere di privare i miei carissimi e buonissimi figli del loro amato padre, ma vi viene in aiuto la patria che è il plurale di padre, e su questa patria, giura o Nino, e farai giurare ai tuoi fratelli quando avranno l’età per ben comprendere, che sarete sempre, ovunque e prima di tutto italiani. I miei baci e la mia benedizione. Papà». Retorica? Le parole sono retoriche quando vengono contraddette dai fatti; non quando i fatti le confermano. E se le circostanze non sono paragonabili, è lo spirito di resistenza — come quello che si vede oggi negli ospedali — che va salvato e trasmesso. Lo spirito che animava il capitano Giuseppe De Toni, uno degli 800 mila soldati condotti prigionieri in Germania dopo l’8 settembre, che così spiega al fratello perché preferisce restare nel lager piuttosto che combattere per Hitler: «Anche noi abbiamo i nostri morti e questa è forse peggio che una prima linea di combattimento. Anche pochi, saremo sempre in numero sufficiente a dimostrare che vi sono degli italiani pronti a sacrificare tutto per un’Italia rispettata, onorata. Torneremo, e presto, ma torneremo a testa alta per il nostro dovere compiuto fino in fondo. E chi non potrà tornare non sarà caduto per nulla». Tornò dalla prigionia Giuseppe De Toni. Ancora oggi a Brescia i nipoti custodiscono la sua memoria. Sono battaglie che non si possono perdere; questo significa che le vinceremo".

 

"..... Ma è proprio in circostanze come queste — quando le cose ci vanno male e anche l’ostilità del mondo sembra che non ci risparmi —, è proprio in circostanze come questa, se non m’inganno, che in molti di noi scatta un sentimento d’identificazione con il nostro Paese fino a quel momento nascosto. Patriottismo è una parola grande e impegnativa. È qualcosa di diverso. È il sentimento oscuro di appartenere ad una medesima storia la quale anche a dispetto della nostra stessa volontà però ci tiene insieme, non foss’altro perché agli occhi degli altri siamo uno stesso popolo dalle Alpi alla Sicilia. È accorgersi che anche se siamo di Lecce in fondo consideriamo quello che accade a Bergamo come qualcosa che ci riguarda, che anche se tifiamo per il Verona non è per niente vero, alla fine, che vorremmo vedere Napoli inghiottita dal Vesuvio. È il sentimento insomma che oggi abbiamo di dividere una sorte comune. Non perché siamo diventati misteriosamente diversi da come eravamo prima dell’epidemia, ma perché il pericolo che oggi ci avvolge tutti fa venir fuori una parte profonda di noi che in precedenza non si faceva sentire. Una parte di noi costruita da memorie ed emozioni sepolte: un incontro con un gruppo di persone che parlavano la nostra stessa lingua in attesa come noi nell’aeroporto di un Paese lontano, i colori intravisti di una bandiera, il suono di una musica familiare così nostra. Accade anche qualcos’altro nell’Italia malata. Accade ad esempio che, è vero, siamo sempre d’accordo con le critiche mosse da tutte le parti a come funziona o meglio non funziona il nostro Paese, con le critiche alla sua burocrazia, alla sua disorganizzazione, alla sua classe politica, così come alla sua società afflitta da mille difetti. L’ho detto all’inizio: la vocazione nazionalista non ci appartiene. Ma se questo accade, accade pure che proprio in una situazione come quella di questi giorni, in cui ci sembra che il Paese sia con le spalle al muro, che tutto sembri confermare i giudizi sconfortanti che noi per primi siamo soliti dare di esso, accade che proprio in una situazione simile avvertiamo però, dentro di noi, nascere un pensiero diverso, un sentimento di orgoglio che non sospettavamo di avere. Non è tanto facile ammazzare l’Italia, ci dice quel sentimento. Non è mai stato facile. Paragonata a tanti altri Paesi, l’Italia è un piccolo lembo di terra, povera, senz’alcuna risorsa, ma bene o male da duemilacinquecento anni quell’Italia riesce a stare sul palcoscenico della storia, da duemilacinquecento anni il suo nome non è mai scomparso nel mondo. In virtù delle molteplici e multiformi qualità dei suoi abitanti, di qualcosa che è intima parte del suo «genio» (bisognerà pure essere liberi di usare parole importanti per dire cose importanti) essa ha sempre avuto qualcosa da dire o da dare. E continua ancora oggi. Ancora oggi siamo tra i primi, tra i primissimi in Europa, nel produrre ogni genere di macchine, di strumenti, di oggetti utili e necessari o semplicemente belli, che esportiamo dappertutto. Così come negli studi, nella ricerca, nelle scienze, non sono poche le conoscenze che portano un nome italiano, e voci, immagini, scritture, musiche, le quali recano in sé anch’esse tutte qualcosa dell’Italia, percorrono ancora oggi il mondo, e il più delle volte non proprio in modo insignificante. Questo pensiamo mentre con non comune sincerità (ben venga!) il nostro governo c’informa ogni giorno del male che cresce e che c’insidia, e di come combatterlo. Ormai sappiamo che il colpo che ne avremo sarà duro. Ma se la storia ci dice qualcosa, ci dice che resisteremo. Che potremo anche cadere, forse. Ma che dopo di sicuro ci rialzeremo".

W l'ITALIA!